La grande illusione

Tra la fine del 1989 e i primi mesi del 1990, feci una mostra personale presso l’atrio della stazione delle ferrovie Nord a Milano. In quell’occasione esegui dei trampoli alti più di dieci metri infilati nelle fioriere decorative che facevano da arredo architettonico alle panchine dell’atrio della stazione.

A mio modesto parere era un lavoro che si armonizzava perfettamente con lo spazio alto e lungo dell’atrio. Alcuni miei amici mi dissero che era poco visibile, che non si capiva cosa volesse rappresentare, che il lavoro mancava di forza in quanto non era chiara l’immagine che volesse dare. Nel manifestino di invito cercai di precisare quale fosse lo spirito che mi aveva guidato e soprattutto verso quale direzione volessi andare.

“DALL’ALTO TOCCO LE COSE E LE IMMAGINI EVAPORANO IN FIGURE SENZA CONTORNO”

Naturalmente era solo un primo tentativo di trovare una strada, mentre combattevo immerso nel desiderio di toccare le cose, far vivere i materiali e trovare in loro la possibile immagine per l’opera, seguendo una lezione che avevo appreso dalla scuola della Casa degli artisti a Milano. Nel frattempo leggevo dai testi sulle Città invisibili di Calvino dei possibili rapporti tra i segni, i desideri, e soprattutto il ‘vedere’. La questione della possibile relazione tra figura e immagine mi ossessionava.

La grande disillusione

Già nella pagina otto del mio vecchio sito, facevo riferimento al racconto Kafkiano del cavaliere del secchio, ma mentre prima ero ancora convinto della necessità di mantenere una adeguata leggerezza, secondo le lezioni Americane di Calvino, ora credo che l’accertato insuccesso del Movimento Antigravitazionale sia proprio un chiaro indizio che qualsiasi profetica linea di sparizione del peso gravitazionale delle cose sia solo una grande illusione.

Infatti, in un secondo possibile finale della novella del Cavaliere del secchio, Kafka scrive: “Fa più caldo quassù, che sulla terra gelata dall’inverno? Le alture intorno sono tutte bianche, l’unica cosa scura è il mio secchio. Se prima ero in alto, ora sono in basso, per alzare lo sguardo alle montagne mi slogo il collo. […] Sull’alta neve che non affonda di un pollice seguo le orme dei piccoli cani artici. La mia cavalcata non ha più senso, perciò sono smontato e porto il secchio su una spalla.” I racconti F. Kafka i Merindiani

I soliti errori (da evitare)

San Paolo, Caracas, Detroit, Pripyat, Tegucigalpa, Houston, Luanda, Cesano Boscone, Chişinău, Gaza, Amman, Bosaso, Tor bella monaca, Città del Messico, Città del Guatemala, La Perla, San Juan, Bogotá, East St. Luis, Bagdad, Itzapalara, Osaka, Ostia, Secondigliano, gli edifici popolari di Via Aler a Milano, sono alcuni degli esempi che si possono indicare per dare l’idea di come l’architettura, sbagliando, non abbia saputo trovare la risposta giusta alla crisi abitativa, sia essa da cause naturali, belliche o solo demografico-migratorie.

Si potrebbe portare l’esempio del campo di internamento di Drancy in Francia, nato come quartiere d’abitazione popolare e divenuto un campo di smistamento per gli ebrei durante la seconda guerra ad opera dei Nazisti,  per capire come certe costruzioni si prestino facilmente al fraintendimento e al riutilizzo ad altra destinazione difficilmente condivisibile. Nell’adesivo in questione sovrappongo immagini relative a scuole di alta formazione politecnica, a cui spesso si sono istruiti capi o semplici soldati Jihadisti, trovando in questi luoghi il giusto complemento per innescare la contestazione e la protesta verso un presunto potere e le architetture più comunemente conosciute come popolari, che assieme a quelle più studiate sui libri di storia indicate come esempio di razionalismo, lasciano a noi una eredità decisamente tragica. Oggi la discussione su come costruire si sta lentamente spostando su modelli che assomigliano molto alle favelas di Rio, ma nonostante tutto non possiamo dire che il problema si sia risolto. Implicitamente addito come primo artefice di tali negativi modelli costruttivo architettonici l’architetto Le Corbusier, ma non dobbiamo nasconderci che a distanza di 52 anni dalla sua morte il problema non ha ancora trovato una soluzione.  

La cop(p)ia

L’altro giorno leggevo un articolo sul Giornale dell’Arte, a proposito del tema dei falsi o delle copie d’autore, da una lezione magistrale tenuta da Jean Clair nel 2013 alla fondazione Zeri di Bologna. Nell’intervento, ad un certo punto mi ha incuriosito il modo di trattare il metodo analitico critico dell’iconologia di Erwin Panofsky. Il metodo, come sappiamo, fu definito verso la metà del XX secolo per determinare un’interpretazione che sapesse andare oltre l’analisi iconografica, per trovare, con esattezza ‘suprema’, il significato delle immagini, e delle opere d’Arte in relazione al contesto culturale e sociale, e riuscire con più precisione determinare l’attribuzione e il significato delle opere d’Arte. Stavo leggendo, quando la mia semplice e curiosa attenzione è passata ad un livello superiore, divenendo interesse spasmodico. Jean Clair, infatti, additando negativamente Federico Zeri per aver sostenuto che il metodo iconologico non si potesse utilizzare in modo estensivo per comprendere e fare attribuzioni sulle opere d’Arte della contemporaneità, mi faceva saltare sulla sedia, creandomi una accesa reazione emotiva di perplessità. Infatti, l’impossibilità del metodo iconologico, sostenuta da Federico Zeri ed esposta da Jean Clair, sembrerebbe essere legata al fatto che le opere di Arte Contemporanea instaurano un rapporto troppo stretto tra la materia di cui sono composte e le immagini che rappresentano, causando una difficile e scivolosa interpretazione che spesso sfugge alla decifrazione e alla comprensione. Ad esempio i quadri di Mondrian o di Malevic risulterebbero inutili elucubrazioni incomprensibili e senza un vero significato.  

Moriremo spazialisti…(?)

Il passaggio da Rosario di santa Fè è il più complesso, non solo per una questione logistica ma anche per una fatto logico.

Sappiamo dai racconti storici che Fontana e Klein sono stati amici e che si stimavano a vicenda, anche se il loro modo di operare, ed essere artisti all’interno del XX secolo, è definibile con l’immagine di due strade parallele che difficilmente si incontrano.

Mentre Fontana è il luminare della quarta dimensione che con i sui buchi ha aperto ad un concetto di libertà sia esperienziale che ideativa, Klein impersonifica il profeta della smaterializzazione dell’Arte, colui il quale con le sue cessioni di sensibilità artistica pone un ipotetico dettato di catechesi per tutte le forme di espressione artistica che da allora prenderanno il nome di Performance.  Mentre Fontana faceva buchi e tagli per indicare una apertura verso una nuova dimensione, Klein metteva una tela sul tetto della sua Citroen per andare da Nizza a Parigi alla velocità di settanta chilometri all’ora per registrare sulla tela stessa il passaggio del tempo.

L’adesivo riportato qui non fa altro che mettere in gioco questa distanza. Mi immagino lo studio di Fontana a Rosario di Santa Fé, alla presenza di Iris Clert (amica e collezionista di Ives Klein), che si vede preoccupata e spaventata riflessa nello specchio. La ragione del suo stato emotivo è legato al fatto di avere da poco ricevuto la notizia della morte di Ives Klein, che proprio in quei giorni tutti cercavano di consolare per l’ignobile comportamento derisorio assunto nei suoi confronti da Gualtiero Jacopetti nella proiezione del Film Mondo cane del 1962 a Cannes.

Venezia

Il passaggio da Venezia avviene in due tempi diversi. Uno nel 1995 con la consegna da parte di Paolo Baratta del premio Biennale Arti a Mattew Barney, e l’altro nel 2017 con l’auto-incensazione di Damien Hirst a Palazzo Grassi grazie alla collaborazione di Francois Pinault. Io credo che leggendo gli adesivi si possa capire quali siano le mie dovute conclusioni. Ma una domanda lecita, sia pur retorica, bisognerebbe porsela. Quali risposte sono stati in grado di dare questi due artisti decisamente affermati, e quindi nella loro piena libertà di azione e di pensiero, rispetto alla secolarizzazione, in senso lato, che il mercato ha operato in questi ultimi quarant’anni nel confronto dell’Arte e degli artisti?

Non ho più niente da dirvi

Ciao Non credo che ci sia molto da dire o da scrivere su questo lavoro. Forse finalmente le cose parlano da sole. Forse finalmente l’arte non ha più bisogno di fare metafore. Finalmente non ho più bisogno di fare citazioni. Ah, no!…scusate solo il titolo è una citazione, ovviamente al fatto che oggi è il 14 Luglio, e che quelle tre definizioni hanno e continuano ad avere molta importanza per il significato che si vuole dare alla democrazia.

Ma questo è il titolo che ho voluto dare alla Performance di stasera, mentre il lavoro, che nasce in coincidenza con l’invio di truppe militari Italiane in Iraq, si compone di tre parole che sono diminutive e dispregiative del termine peacekeeping, che diventa peacekiiping (pronuncia identica ma significato che si avvicina all’idea di cacciare la pace nel buio di una galleria di una miniera), e naturalmente pisschchiping che è una voluta volgarizzazione del fare la pipi nel primo posto che ti capita, ma dove possibilmente non ti veda nessuno. Infatti l’Africa ha la più bassa visibilità mediatica del mondo.

Milano vs Napoli: Chi ha avuto ha avuto ha avuto…chi ha dato ha dato ha dato…e scurdàmmoce ‘o ppassato

Milano vs Napoli: Chi ha avuto ha avuto ha avuto…chi ha dato ha dato ha dato…e scurdàmmoce ‘o ppassatoIl passaggio da Milano evoca sostanzialmente due immagini.

Una è quella della fontana dei bagni misteriosi di Giorgio De Chirico e l’altra la ricostruzione del lavoro di AVABLOB venticinque anni dopo la sua realizzazione, nella esposizione temporanea di ENNESIMA a cura di Vincenzo De Bellis.

Per quanto riguarda la prima rimane poco da aggiungere, se non il rammarico di sapere che dopo anni di accesa polemica per la mancata cura di una dei lavoro più belli di De Chirico, si sia ceduto alle lusinghe della MAPEI, che voleva intervenire con i suoi cementi colorati per impermeabilizzare e riempire di acqua tutto il gruppo scultoreo. Oggi se volete andare a vedere la fontana in oggetto dovete ricordarvi che all’origine l’acqua non c’era, e che lo stesso De Chirico dovette combattere ferocemente con le autorità della Triennale per convincere tutti che la rappresentazione dell’acqua era di per sé un fatto metafisico. Nella fontana, la goffaggine dei personaggi e il loro coesistere quasi come in un fumetto è quello che ci permette di vedere l’acqua anche se non c’è.  Di fronte alle sculture della fontana di De Chirico si ritorna bambini, e come quando da piccoli si giocava con le macchinine facendo il rumore del motore che non c’era, ora di fronte all’opera di De Chirico si riesce a sentire l’acqua che scorre anche se non c’è. Il restauro di qualche anno fa della Mapei ha snaturato completamente questo rapporto. Ci si imbambola davanti all’acqua, se ne vede il riflesso, e non si riesce ad immaginare niente. Il mio adesivo a tonalità verde-giallo mette in mostra quello che ci sarebbe potuto immaginare osservando la Fontana senza l’acqua, facendo intervenire Giorgio De Chirico mentre esce dalla cabina da bagno come paciere di fronte alla stupidità delle persone che giocano e litigano su delle regole di convenienza. Anche l’aereo che passa non vede altra alternativa che precipitare.

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